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Vista la mia lunga latitanza, voglio tornare proponendo un libro molto speciale, soprattutto per lo spirito del blog: I miei luoghi oscuri.

Ho da sempre subito un discreto fascino dalle autobiografie e questo libro rappresenta esattamente ciò che più mi attrae di questo genere, il confronto con il proprio passato. Non fraitendetemi, non vado a cercarmi delusioni del tipo DFW con personaggi alla Tracy Austin, o chi per lei come calciatori, boxer, personaggi televisivi e via dicendo. Ma chi, ripercorrendo la propria vita, riesce con l’arte a trovare l’Essenza, l’origine dell’individualità e raccontarla.

Certo James Ellroy non viene visto come l’Artista puro, conosciuto universalmente come scrittore da bestseller o film kolossal – passando da Sei pezzi da mille fino ad L.A. Confidential – con la sua scrittura chirurgica, che supera il documentarismo nella cinica ricerca del dettaglio, del particolare, della verità.

Con questo libro invece egli mostra con passione se stesso, racconta uscendo da ogni schema di chi è riuscito a fuggire l’inferno di un’adolescenza dedicata alla solitaria ricerca dell’assassino della madre, tra alcool, droga, violenza, incubi e miseria, per scoprirsi nella scrittura in grado di affrontare ogni demone affiorante dal passato.

L’assaggio:

Vivevo in due mondi.
Il mio mondo interno era governato da fantasie ossessive. Il mondo esterno si intrometteva troppo spesso. Non riuscivo a imparare ad ammassare i miei pensieri e tenerli per i momenti intimi. I miei due mondi erano in collisione continua.

Io vivevo di idee – stupide e non. Mi impregnavo di concetti strampalati. I libri e i film fornivano canovacci che rivedevo da una prospettiva distorta.
La mia mente era una spugna culturale. Ero privo di capacità interpretative e non possedevo il dono dell’astrazione. Incameravo trame romanzesche, fatti storici e accadimenti generici – e  con brandelli di dati casuali mi costruivo una folle visione del mondo.
La musica classica mi pic-pic piccava il cervello. Mi smarrivo dentro Brahms e Beethoven. Le sinfonie e i concerti mi facevano l’effetto di romanzi complessi. I crescendo e i passaggi appena delineati li vivevo come narrativa. L’alternarsi di momenti veloci e lenti mi precipitava in caduta libera.

Qualche tempo fa, durante chissà quale conversazione, il Feffo mi disse: “Quanto è bello ascoltare De Andrè”. Essendo lontanti, decidemmo al volo una canzone e ci lasciammo sentendola ognuno per conto suo. (E’ molto adolescenziale,ma che volete.. noi lo siamo ancora). Io De Andrè, chi mi conosce da più tempo lo sa, l’ho ascoltato molto, forse in modo un po’ troppo viscerale a volte, eppure in quel momento mi sono accorto che non riuscivo a farmi trasportare dalla sua voce con lo stesso interesse e la stessa passione di prima: tutta colpa di Gaber, potrei dire.

Vi ho resi partecipi di questa vicenda per introdurvi a due opere assolutamente importanti nel percorso di questo blog. Si tratta di due dischi appartenenti a periodi musicali e storici diversi: uno rappresenta la presa di posizione politica del suo autore, l’altro un testamento lasciato al termine della carriera. Ad oggi questi album non si possono definire così facilmente, perchè entrambi ci rimangono sia come testamenti, sia come veementi posizioni sociali.

Parlo di:

Storia di un impiegato” di F. De Andrè

storia-imp

Vs.

Io non mi sento italiano” di G.Gaber

iononita

Questi dischi raccontano entrambi un viaggio, quello dell’artista che affronta la società e non si rassegna a se stesso, un viaggio fatto di risposte e soluzioni, ma soprattutto di vie percorse. Se i linguaggi utilizzati sono differenti – il primo naturalmente è caratterizzato da un registro poetico, il secondo evoluzione del teatrocanzone – più si ascoltano più si sente la comunanza di fondo per i temi trattati, per le domande che li hanno generati: Chi sono? Qual’è la mia identità? Cosa vogliono le persone che mi stanno attorno? Chi è la donna che ho vicino? Che cosa mi emoziona? Che cos’è la società ed possibile farne parte rimanendo liberi? Ed altre ancora, a seconda della sensibilità di ciascuno. Storie di televisioni e lavatrici, primavere ed estati, mostri e bombe, maschere e silenzi, dilemmi ed amore. Note che ci conducono ad un finale, a quell’ultima domanda, note che mi hanno aiutato ad iniziare a darle una risposta.

I consueti assaggi:

“se il fuoco ha risparmiato
le vostre millecento
anche se voi vi credete assolti
siete lo stesso coinvolti”

“Oggi, un giudice come me,
lo chiede al potere se può giudicare.
Tu sei il potere.
Vuoi essere giudicato?
Vuoi essere assolto o condannato?”

“continuerai ad ammirarti tanto da volerti portare al dito
farai l’amore per amore
o per avercelo garantito”

“Fa un certo effetto non capire bene
da dove nasce ogni tua reazione.
E tu stai vivendo senza sapere mai
nel tuo profondo quello che sei
quello che sei.”

“Ma noi siamo talmente toccati
da chi sta soffrendo
ci fa orrore la fame, la guerra
le ingiustizie del mondo.
Com’è bello occuparsi dei dolori
di tanta, tanta gente
dal momento che in fondo
non ce ne frega niente.”

“La parola io
è uno strano grido
che nasconde invano
la paura di non essere nessuno
è un bisogno esagerato
e un po’ morboso
è l’immagine struggente del Narciso.”

L’altro giorno avevo deciso di aggiornare Ubuntu, una buona volta, essendo equipaggiato ancora della 7.10. Ero rimasto così indietro per due motivi: funzionava bene ed ero consapevole che il mio lettore cd non era affidabile, avendo notevoli problemi in lettura. Ho provato il passaggio di versione ed è sempre andato a buon fine, ma essendo necessari più passaggi intermedi e volendo dare una bella ripulita, ho preso coraggio e fatto partire l’installazione di quest’Intrepid Ibex dal suo cd.
Naturalmente il lettore è morto nel momento fatidico in cui stava scrivendo sul MBR ed installando GRUB. Risultato? al boot schermata nera. Essendo il mio caro portatile sprovvisto della possibilità di un avvio usb potevo ritenermi letteralmente fregato (dopo qualche minuto di totale incredulità).
Che possibilità mi rimaneva? Il mio caro vaio non permette di estrarre direttamente il lettore cd, costringendomi a smontare tutto, ed inoltre è equipaggiato di un lettore slim.. come dire una seccatura. Ed era sabato.

C’era però ancora una possibilità: la scheda di rete.

NetBoot: installare Ubuntu via LAN:

A mia disposizione avevo un router ADSL con relativa connessione ad internet ed un computer (ahimè) equipaggiato windows.

Ecco di seguito i rapidi passaggi per far andare a buon fine l’operazione (o almeno quelli che sono diventati rapidi passaggi dopo un po’ di prove ;.)
1)  Scaricare Tftpd32 (gratis su http://tftpd32.jounin.net/)  ed installarlo su windows. Questo permette di trasformare la macchina in un server TFTP con il DHCP attivo. Nel mio caso il percorso è C:\programmi\tftpd32

2) Recuperare l’immagine netboot di Intrepid che trovate qui:

http://archive.ubuntu.com/ubuntu/dists/intrepid/main/installer-i386/current/images/netboot/

3) Estraete il contenuto del file nella stassa cartella utilizzata per il server tftpd (nel mio caso C:\programmi\tftpd32), recuperare poi nella cartella scaricata \ubuntu-installer\i386\ i file pxelinux.cfg, pxelinux.0 e vesamenu.c32 e metterli nella sottocartella C:\programmi\tftpd32

4) -Avviare il programma tftpd32 e configurare come segue (dovrebbe solo da esserci in fondo da spuntare PXE Compatibility)

impostazioni-tftpd

– Poi nelle impostazioni DHCP:

impostazioni-dhcp

– ip pool starting address: il primo ip che verrà rilasciato (Io sapendo che il vaio era il 5° computer connesso 192.168.1.5, ve bene al posto del 5 un numero che volete tipo 110 come consiglia qualcun’altro )

– size: numero massimo di ip rilasciabili (mettetene 5)

– boot file: pxelinux.0 (C:\programmi\tftpd32\pxelinux.0)

– dafult router: l’indirizzo del vostro gateway (nel mio caso 192.168.0.1)

– mask: la maschera della vostra rete (255.255.255.0)

– dns: recuperare il dns che si sta usando(altrimenti prenderlo da https://www.opendns.com/homenetwork/start/device)

Salvare ma non chiudere.

5) Avviare il computer sul quale si vuole installare Ubuntu (controllando che dal bios sia attivato il boot da rete) e dopo un rapido boot comparirà la schermata grafica iniziale di ubuntu (motivo per il quale ci vuole anche il file vesa32 a differenza delle passate edizioni).

6)  Ora bisogna fare un’operazione poco ortodossa. Con questo sistema quando si lancia l’installazione non succede nulla. In rete molti hanno risolto il problema staccando il cavo lan e riattaccandolo, io suggerisco un “riavvio” di TFTPD32 ovvero chiudetelo e riapritelo. A questo punto l’installazione partirà!

7)procedete con l’installazione..

Se qualcuno ha suggerimenti o domande (ricordo che i miei post sono singole esperienze personali di un semplice utente e da prendere come tali) non fate altro che postare fra i commenti!

Un film molto Takki.

Ossessione e solitudine. L’individualismo e la ricerca della sua totalità non sono una passeggiata. Aronovsky in questo film ci mostra qualcosa di più in realtà della pazzia a cui può portare la ricerca dell’assoluto e la fuga dal relativo, ci mostra la lotta che la mente deve sopportare per creare ordine dal caos. Per far questo la matematica di Max Cohen tanto ambita dagli squali di Wall Street lo conduce alla metafisica che ossessiona gli ebrei ortodossi seguaci della Torah. Ma non sarà da loro che dovrà guardarsi, da ben altro dovrà difendersi.

Personalmente ho interpretato il finale in un modo che mi sembrava ovvio, ma parlandone in giro non tutti mi sembrano d’accordo. Quindi, finale a sorpresa.

 

Il consueto assaggio:

9 e 22 Nota personale: quando ero piccolo mia madre mi diceva di non guardare fisso il sole, ma una volta, a sei anni, lo feci. Da principio quella luce accecante era insopportabile, ma io non distolsi gli occhi neanche per un momento. A poco a poco la luce iniziò a dissolversi, le mie pupille si ridussero a capocchie di spillo, e riuscì a mettere tutto a fuoco. Per un momento vidi e capii.

13 e 26 Nota personale: enuncio di nuovo le mie teorie:

primo, la natura parla attraverso la matematica

secondo, tutto ciò che ci circonda si può rappresentare e comprendere attraverso i numeri

terzo, tracciando il grafico di qualsiasi sistema numerico ne consegue uno schema, quindi in natura ovunque esistono degli schemi

Sto guardando, come molti di voi sanno, Twin Peaks per la prima volta. Meglio tardi che mai. Ho fatto fatica a non farmi dire chi fosse l’assassino di Laura Palmer ed ora lo so. Ero però tremendamente curioso di sapere perchè tutti mi dicevano che in fondo era irrilevante. Anche se si tratta di un caso limite, mi è venuta in mente una riflessione riguardo al rivelare o meno la trama di un libro o di un film : mi capita ormai frequentemente di conoscere persone che non vogliono sapere niente della storia che si accingono a leggere, in modo che sia una completa sorpresa e che nulla faccia perdere il piacere di scoprire le cose da sè. Non sono tra quelli e non sono pienamente d’accordo. Capita spesso che non solo su blog e forum, ma anche sulla quarta di copertina, dettagli rilevanti vengano anticipati. Soprattutto in alcuni romanzi di genere, come il giallo, è seccante. Ma se si tratta di un’opera valida, sapere di che cosa parla non cambia niente. Un libro, o un film naturalmente, a mio avviso non vale la spesa se saperne il contenuto toglie il gusto di leggerlo o vederlo. Considero, in questo senso, una grande invenzione narrativa iniziare dal finale. Ci sono opere bellissime che si basano su storie banali e che traggono il loro valore da qualcos’altro. Ci sono poi i capolavori, di cui si può sapere tutto, ma non c’è nulla che può togliere il gusto di leggerli. E si riconoscono facilmente. Come? Sono quei film e quei romanzi che che ci portiamo dietro tutta la vita, che leggiamo e rileggiamo, vediamo e rivediamo.

Quello che segue, è un libro assoltutamente attinente a quanto detto sopra e sapere che il professor Horner avrà una storia con Rennie, la moglie del professor Morgan, e che lei glilo dirà, non potrà in nessun modo diminuire il gusto leggerlo al più presto.

In a sense, I am Jacob Horner.

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“In un certo senso io sono Jacob Horner”. Con questo incipit, John Barth apre la strada ad un libro di rara profondità e sensibilità. Alla trama lineare ed al semplice intreccio, si affianca la forza devastante di un’indagine filosofica tra assoluto e relativo, tra essere e non essere. Jacob Horner non è però un personaggio tormentato, a differenza delle persone che hanno la sfortuna di incontrarlo. Padrone indiscusso del linguaggio e del paradosso, riesce a far scricchiolare elementi portanti del pensiero come la logica. Scegliere, mentire, essere onesti, dopo aver conosciuto Jacob Horner, fa sorgere molte, interessanti, domande.

il consueto assaggio:

E quando uno dice addio ai valori oggettivi, deve veramente gonfiare i muscoli e tenere gli occhi aperti, perchè deve tenersi su da solo. Ci vuole energia: non solo fisica, ma anche intellettuale, o si è perduti.

“Scegliere è esistere: nella misura in cui non scegliete, non esistete”

PS: chi mi svela la trama di un libro o un film mediocre, subirà la più crudele delle vendette.

GEEKS

Qualche tempo fa ho comprato degli occhiali per via di una leggera miopia, occhiali in realtà fondamentalmente inutili dato che li uso, se il uso, solo per guidare. Ho ricevuto diversi complimenti per la scelta, tra i quali di assomigliare a Woody Allen -potevo essere solamente paragonato al Mike Myers nel ruolo del suo personaggio più famoso,per sentirmi peggio – oppure, se fossero stati un po’ più spessi, ad un perfetto nerd -quest’ultimo a pensarci non può che essere stato di mio fratello. Mi è venuto da rispondergli “al massimo un geek“.

Racconto questo episodio perchè mi è tornato alla mente un libro molto interessante ed assolutamente attinente al tema del blog:

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Non mi interessa distinguere un nerd da un geek, quanto consigliarvi questo lavoro di Jon Katz, il quale in modo molto lucido e appassionante traccia il profilo di una delle più recenti forme di individualismo che siano nate. Il geek, appunto.
Una componente che spesso ha accompagnato l’individualismo consiste nel sentimento di alienazione che prova il soggetto, il quale schiacciato dalla società cerca di difendere la sua identità trovando nelle sue attitudini più spiccate la salvezza. L’esempio per eccellenza è quello dell’artista. Il geek però, diversamente altre forme individualiste di questo tipo, non è solo, ma interagisce con altri geek e si esprime pienamente in un altro mondo, quello virtuale. Internet, rete o cyberspazio come vogliate chiamarlo. Il geek è il prodotto dell’individualismo che incontra la tecnologia, e che, da emarginato, cavalcando l’innovazione acquisisce un ruolo centrale nella società, prima su tutte quella informatico-mediatica. Un esempio, Bill Gates. O almeno il “primo” Bill Gates. Dico questo perchè il geek vive pienamente la sua diversità, la sua mancata integrazione, ma allo stesso tempo persegue la libertà, soprattutto quella intellettuale, della quale non vuole sentire limiti. Linux è il suo pane quotidiano. Rispetto alla proprietà materiale nutre disinteresse a meno che non si tratti di beni tecnologici. Il relativo basso costo per accedere alla rete permette loro di coltivare pienamente gli interessi più svariati, fino ad avere una preparazione spiccata in ambiti specializzati con totale padronanza per reperire, ad esempio, informazioni di ogni genere. La diffidenza nei loro confronti è dovuta sostanzialmente all’impostazione poco accademica dei loro studi. E magari agli occhiali.

Eppure la rivoluzione che stiamo vivendo, quella digitale, è proprio condotta dai geek, ed è così travolgente da colpire ambiti fondamentali socialmente come il commercio e la proprietà. Basti vedere in questi tempi come sta cambiando il mercato della musica. Il geekismo inoltre è un fenomeno di carattere mondiale, che accomuna ragazzi di tutte le nazioni, i quali sono riusciti a guadagnarsi rispetto tanto da cambiare il significato dispregiativo del termine originale, in un’accezione positiva e tanto diffusa da essere ormai perfino snaturata.

Rimane però il fatto che se molti di loro sono ” arrivati”, lo devono solo a loro stessi. Altri, più deboli, vivono patologicamente la loro esistenza, per lo più nelle scuole, fino a scoppiare nella follia che leggiamo ormai frequentemente nella cronaca. Anche di questo vi parlerà Jon Katz.

A mio avviso è il risultato di un’educazione, tanto quella scolastica quanto quella familiare, sempre troppo indietro con il passo tecnologico, che lascia o costringe i ragazzi a fare una scelta tra due mondi. Due mondi che sono uno solo, ma percepiti come quello reale, che indugia su vecchi modelli, quello digitale, che non ne ha. Così gli adolescenti si trovano di fronte ad una scelta che non esiste. E ricorrono a tutte le risorse possibili. O a quelle poche che hanno.

Eccovi qualche assaggio:

“I geeks abitano in un mondo digitale. Hanno volontariamente abbandonato un mondo che li rifiutava e ne anno trovato uno più avvincente. Hanno conquistato un territorio dove vivere in libertà, una libertà inimmaginabile per i “normali”. Uno mondo dove non conta l’aspetto, non conta la razza, non conta la laurea, nè il dialetto o l’accento; le idee e le personalità si mostrano nude per quello che sono: è una nuova dimensione di realtà.

“I geek sanno bene, forse meglio di chiunque altro, che i computer non possono sostituire il contatto umano, l’affetto di parenti e amici. Continua ad esistere una realtà di vicinato. I computer non sono nè ristoranti, nè teatri o caffè. Ma attraverso i computer si costruisce il cyberspazio che, per quanto virtuale, è sempre un mondo.”

” I geeks sono stati i primi a capire le potenzialità della rete come mezzo per lo scambio di informazioni. E non a caso, perché i programmi per gestire e trasmettere le informazioni in Rete – orari dei mezzi di trasporto, programmazione e critica cinematografica, notiziari, commenti, cataloghi, software e musica (la disponibilità di musica gratis è uno dei principali meriti dei geeks) – sono stati scritti in gran parte da loro. Oggi, molti quotidiani e settimanali sono disponibili online. Le principali notizie sono pubblicate in Rete ore prima di essere pubblicate su carta..”

Dopo un mese di utilizzo intensivo del nuovo gioiellino della Apple, mi trovo obbligato, dopo insistenti richieste, a scriverne una breve recensione. Questo post risulterà quindi un po’ off-topic rispetto al normale corso del blog.

Esprimo subito il mio giudizio: rasenta la perfezione.

Innanzi tutto ho preso (Per essere precisi ringrazio il caro Teo per avermelo portato da NY) il modello da 8Gb, ovvero quello base. Ne sono però completamente soddisfatto, per via di un dubbio di cui vi parlerò in seguito.

Si tratta di un oggetto di ottima fattura, piacevole al tatto, sottile e soprattutto maturo. Dico questo perché la totale chiusura del software ed i rari upgrade dell’interfaccia hanno spesso portato i lettori Apple a funzioni molto limitate. Ad esempio il metodo di ricerca delle canzoni o la possibilità, per risparmiare batteria, di diminuire la luminosità sui vari Ipod. In questo caso invece si ha da subito l’impressione di avere sotto i polpastrelli un prodotto che ha dietro di sè anni di esperienza, sia a livello di fruibilità che di interattività. Gli accorgimenti sono molteplici e se ne scoprono continuamente di nuovi. Ad esempio se vi troverete a scrivere un testo di piccole dimensioni e vorrete modificare una lettera al centro di una parola senza zoomare, basterà tenere il dito premuto più a lungo e comparirà un’utile lente di ingrandimento che vi permetterà di raggiungere il punto desiderato.

Prima di comprarlo avevo delle perplessità, le quali sono state completamente smentite:

Innanzi tutto riguardo alla durata batteria: visti i precedenti non entusiasmati mi chiedevo come fosse possibile che un oggetto così sottile(più di quanto possiate immaginare) che in fondo è tutto schermo con tanto di visualizzazioni 3d potesse durare a lungo: invece è davvero prestante, anche tenendo contemporaneamente aperta la musica, safari e chissà che altro. E’ possibile regolare la luminosità( se messa al minimo vi durerà dei giorni) o impostarne l’intensità con regolazione in automatico. Difficilmente la terrete al massimo, a meno che non indossiate occhiali da sole.

le dimensioni: visto su internet sembra grande e scomodo, invece lo potete tenere nel palmo di una mano e soprattutto nella tasca dei jeans. E’ leggermente più lungo di un vecchio video, ma solo se li mettete vicini: altrimenti sembra addirittura di dimensioni inferiori.

il funzionamento di safari: La connettività e la interagibilità. La prima è perfetta, anche tramite hotspot difficili a cui connettersi, ad esempio tramite proxy non efficienti. La seconda, tramite questo direi mitico double touch che permette di zoomare manualmente con la pressione dei due polpastrelli, risulta ampiamente soddisfatta, senza contare che con doppia pressione si può zoomare in automatico, adattando la parte di testo che volete leggere allo schermo. Inoltre, come avrete sicuramente visto, con il semplice orientamento fisico del touch potete disporre la pagina orizzontalmente o verticalmente come vi è più comoda.

la digitazione: ho letto vari articoli sull’iphone in cui viene detto che risulta piuttosto complicata, non potendo avere il controllo fisico dei tasti, come succede ad esempio con un Blackberry. Ok, però questo non vuole dire sia facile sbagliare i tasti. Chiaramente bisogna guardare dove si scrive (cosa che alla fine succede anche sui Blackberry, tant’è che la gente lo usa appoggiandolo al tavolo e non a memoria senza guardarlo). Per quanto piccoli però, non so come sia possibile, risulta facile centrarli, riducendo il margine di errore ad un limite assolutamente irrilevante. Per esperienza personale posso dire che per un risultato ottimale si deve usare l’indice e non altre dita.

Gmail, chi mi conosce lo sa: non posso fare a meno di gmail, del reader e di gtalk o messager. I servizi Google sono perfettamente utilizzabili e adattati allo schermo nella modalità mobile, ma funzionano correttamente anche nella versione normale se non c’è largo uso di ajax, difficilmente ridimensionabile. Ora si possono anche visualizzare i documenti o i fogli di lavoro. Per chattare è comodissimo connettersi tramite meebo, riuscendo ad avere aggregati in un’unica pagina tutti gli IM che si utilizzano solitamente ed allo stesso tempo un’ottima visualizzazione.

Come qualsiasi oggetto elettronico, l’ipod touch non è però esente da bug. Di seguito i due che ho rilevato:

– Quando si sfoglia la musica in modalità coverflow, se le copertine sono tante, capita che non carichi tutte le immagini se c’è un altra applicazione, ad esempio safari, in esecuzione. In questo caso si riscontrano anche rallentamenti che risultano essere molto fastidiosi, poichè i pochi frame a quel punto disponibili rendono sgradevole e a volte impossibile la selezione della musica.

– Mi è capitato che i video risultassero mal riprodotti (colori sballati, immagini distorte) se non si ricorreva ad un riavvio.

Direi che si tratta di due problemi marginali ed occasionali, di cui solo il primo può preoccupare potenzialmente: qualora si disponga di un 16gb, con molta più musica quindi caricata, l’utilizzo della modalità cover flow può risultare non gestibile?

Ultima nota negativa la politica Apple in fatto di Ipod Touch, ovver oggetto destinato a visualizzare o ad eseguire contenuti, ma non a crearli. La trovo decisamente discutibile. Un notes sarebbe comodo. Anche altri servizi, come google maps sarebbero interessanti da utilizzare. O un client di posta o una chat interna. You Tube integrato è davvero utile e comodo, ad esempio. Allo stesso modo Itunes store.

Devo dire che lo sforzo compiuto da Apple è notevole, perchè questo prodotto è il risultato di un avanzamento non tanto tecnologico (alla fine la sola innovazione applicata è il double touch), quanto innovativo nel fornire servizi. Lo studio, affermerei maniacale, sull’interfaccia, curata veramente nei minimi dettagli, è ciò che fa la differenza. Di continuo si trovano utili accorgimenti, proprio quando servono. E’ in tutto ciò da ricercare il suo grande punto di forza, quello che dà l’impressione quando lo si utilizza di avere tra le mani qualcosa che è avanti di una generazione rispetto a quanto circoli ora sul mercato.

Da buon pro-opensource mi fa sognare per le future possibilità e personalizzazioni possibili che suggerisce, qualora ad esempio a dargli vita sia il caro linux.

Concludo quindi consigliandolo a tutti e promettendo di rispondere ad eventuali domande.

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“I already forget how I used to feel about you.”

tagline

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Distribuito qui da noi con il ridicolo titolo “Se mi lasci, ti cancello“, traduzione “all’italiana” fatta con l’artificio di fregare ignare coppiette che si aspettano la solita commediucola demenziale, questo film è in realtà uno dei lavori più complessi ed armoniosi degli ultimi vent’anni.

Si tratta di una pellicola eccezionale sotto tutti i punti di vista: un ottimo cast (finalmente un Jim Carey che dimostra le sue doti drammatiche ed una Kate Winslet detitaniczzata..), una grande regia (grazie all’immaginazione visionaria di Gondry), una colonna sonora notevole (Beck ci regala una cover splendida), ma sopra a tutto una sceneggiatura perfetta (scritta da quel geniaccio di Charlie Kaufman), che rimarrà nella storia del cinema indimenticabile sia per costruzione che per contenuti.

Come al solito non vi svelo nulla della trama, ma posso dirvi che questo film, creato con razionalità chirurgica, riesce a trattare con efficacia il più irrazionale dei temi: l’amore. In una location tanto nordamericana quanto nordeuropea, la memoria conduce un gioco emozionante, tra introspezione e rapporti interpersonali, tra ricordo e sogno: gioco che è tanto di Joel e Clementine, quanto nostro.

“Our memories makes us who we are. You can’t change the past.”

“You can erase someone from your mind. Getting them out of your heart is another story.

Il male oscuro

E’ il male oscuro di cui le storie e le leggi e le universe discipline delle gran cattedre persistono a dover ignorare le cause, i modi: e lo si porta dentro di sé per tutto il fulgorato scoscendere di una vita, più greve ogni giorno, immedicato.

Gadda

 


Il male oscuro sarebbe stato in realtà la mia prima scelta per introdurvi al percorso che propongo, ma il suo effetto potenzialmente pericoloso mi ha fatto desistere: se lo scambiate per un semplice romanzo, non vi lascerà scampo. Si tratta di un libro che cerca di dissuadervi le prime pagine, ma dopo vi trascina nel suo turbinio di emozioni, angoscie, desideri e non potrete più farne a meno. Leggerlo vuol dire vedere il mondo che vi circonda cambiare aspetto, vuol dire iniziare a ragionare come è scritto e scoprire qualcosa di scomodo che giace dentro di voi . E’ uno dei libri più coraggiosi che avrete modo affrontare e non sarà qualcosa che ricorderete di aver letto, ma un’esperienza che avete vissuto. Questo libro rappresenta l’individualismo occidentale alla scoperta di uno dei suoi strumenti di indagine più importanti, la psicoanalisi.

E’ un’opera che si è voluta dimenticare assieme al suo autore, Giuseppe Berto, ma che è ora a mio avviso di riscoprire.

Un assaggio:

“Penso che questa storia della mia lunga lotta col padre, che un tempo ritenevo insolita per non dire unica, non sia in fondo tanto straordinaria se come sembra può venire comodamente sistemata dentro schemi e teorie psicologiche già esistenti..”

“..mi sento di colpo confortato e caldo di riconoscenza per lui che sembra avere tanto a cuore il mio benessere anche oltre l’ora pagata della seduta psicoanalitica, e non importa che io provi insieme vergogna e senso di colpa per avere così a lungo mantenuto residui di diffidenza contro di lui, ora sono pronto alla più aperta fiducia e sicuro che continuerò fino alla fine questa cura perché pur non credendo a sufficienza nella psicoanalisi credo sconfinatamente in quest’uomo quant’altri mai probo ed onesto..”

“..dopo avere rispettosamente aspettato che lui si sieda mi sdraio sul lettino togliendomi le scarpe benché da informazioni prese nel giro dei giovani psichiatri ormai sappia con certezza che le scarpe non si tolgono e a quanto si dice pare che io sia l’unico esemplare di analizzando che si fa analizzare senza le scarpe, ma che ci posso farci ormai ho cominciato a togliermele e penso che dovrei dare delle spiegazioni se ad un tratto non me le togliessi più, così me le tolgo sebbene poi nel corso della seduta resti disturbato dalla visione dei miei piedi senza scarpe tant’è vero che per non vederli chiudo spesso gli occhi e li tengo chiusi anche per lungo tempo, quindi tutto sommato questo problema delle scarpe bisognerebbe risolverlo per la stessa buona riuscita della cura però giacchè sono prossime le vacanze ho deciso che il cambiamento di sdraiarmi con le scarpe lo farò dopo l’interruzione così passerà inosservato spero..”

Un’altra operazione che ho compiuto in merito alla sicurezza è stata quella di proteggere i dati contenuti in una partizione, quando ubuntu è impostato come multiutente.

In questo caso una delle basilari regole di linux – tutto in linux è un file – ed uno dei suoi diretti corollari -usa i comandi chmod e chown per regolare gli accessi ai suddetti file- conosce un temperamento. Per proteggere le partizioni da un altro utente infatti si deve seguire un procedimento diverto: bisogna passare per fstab.

Il vantaggio di editare questo file? Qualora qualcuno usi il mio computer, tramite un account apposito – io l’ho chiamato “ospite”-, non avrà accesso a tutti i dati della partizione, senza che debba preoccuparmi di ogni singolo file o cartella.

Ad esempio tra le varie partizioni presenti sul mio computer, la più estesa l’ho chiamata dati, formattata in fat, ed è punto di scambio tra il vecchio winzoz e la cara ubuntu.

Ricordo che è sempre buona abitudine fare un backup del file che editate, ancora di più in questo caso: ricordo che si tratta di appunti personali- da cui prendere spunto- e non di una guida.

Vi posto quindi la riga che ho inserito, dopo aver eseguito da terminale il comando sudo gedit /etc/fstab(su xubuntu usate o mousepad o vim o pico):

# /etc/fstab: static file system information.
#
# — This file has been automaticly generated by ntfs-config —
#
# <file system> <mount point> <type> <options> <dump> <pass>

/dev/sda7 /media/dati vfat auto,uid=1000,umask=007,defaults 0 0

-il paramentro sda7 che indica la partizone l’ho ottenuto dopo aver lanciato il comando sudo fdisk -l

-la cartella dati, punto di mount, l’ho creata con il comando mkdir

-vfat indica la formattazione del file system

-le opzioni, di cui potete trovare le spiegazioni a questa pagina, comprendono l’automontaggio al boot, l’indicazione dell’utente che può avere accesso e con quali permessi. Per quanto riguarda umask, che determina le regole dell’accesso, il ragionamento da fare è speculare rispetto al comando chmod usato inserendo il parametro numerico, di cui trovate la tabella a questa pagina. Gli altri due sono valori standard, che non vi interessano se non usate i comandi dump o fsck.

A questo punto dopo aver salvato lanciate un bel mount -a: se la partizione si monta avete editato bene e non vi rimane che riavviare per la prova del 9.